Come un Cristo, Vincenzo Gemito cerca la sua Resurrezione. Il suo corpo sotto un blocco di marmo è forse l’immagine più potente dello spettacolo “Gemito - l’arte d’ ‘o pazzo”, andato in scena al Mulino Pacifico, proposto dalla Compagnia Teatrale Insania, nell’ambito della rassegna organizzata dalla Solot di Benevento. Si comprende subito che gli autori mirano a scandagliare cosa si agita dietro una creatività, in particolare cosa portò lo scultore napoletano a ribellarsi ai canoni del suo tempo.
La travagliata vicenda di Gemito si svolge a Napoli tra la fine dell’ottocento e l’inizio del nuovo secolo. Nato da genitori ignoti, sarà abbandonato sulla "Ruota degli Esposti". Già da piccolo scoprirà la sua vocazione per la scultura, formandosi poi come autodidatta e facendosi apprezzare anche all'estero. Ma la sua ricerca ossessiva della perfezione sarà vista da molti come una "pazzia" visionaria. Per questo sarà rinchiuso per due anni in un manicomio, da dove uscirà ancora più “ostinato e contrario" al mondo.
La scena si apre con i ricordi d’infanzia e i tormenti dell’artista, inseguito dai fantasmi e dalla statua di Carlo V, in un’atmosfera tempestosa, tra i dissidi frequenti con la moglie Nannina. Il bisogno creativo si rafforza dopo il periodo nella casa di cura. Nell’arte c’è sempre un pizzico di follia. “In questa società -sbotterà- non si è neanche liberi di impazzire nella propria casa. Sono stato trattato come uno zimbello, sono stato dato in pasto alle carogne che si nutrono di menzogne. Non posso continuare a vivere con le mani vuote”.
Gli attori della Compagnia Insania ricostruiscono con grande incisività e fisicità le sue domande, le sue riflessioni e le sue accuse. Il testo è scritto e diretto da Antimo Casertano, che interpreta anche Gemito, mentre le altre parti sono affidate a Daniela Ioia, Luigi Credendino e Ciro Giordano Zangaro. La scenografia, scabra e suggestiva, porta la firma di Flaviano Barbarisi. La performance è accompagnata anche da una delicata ninna nanna su Vincenzo bambino, che sogna la mamma mai conosciuta.
La rabbia dell’artista contro il potere esplode quando si accorge che il governatore ha preferito l’opera di Antonio Pennino alla sua. I suoi strali si scagliano contro tutti, il denaro e gli amici. “L’arte è finita in mano ai burocrati -osserverà sdegnato- in mano ai mercenari, ai mercanti. Ma l’arte è una cosa e il mercato è altra cosa. L’arte è finita in mano a quattro “sciemi”, che non se ne importano. Meglio stare lontano dai miei nemici. Nell’arte non esistono gli amici, perché ognuno pensa ai cazzi suoi”.
La moglie cercherà in tutti i modi di farlo ragionare, per fargli accettare la realtà. “Preferisco -ribatterà Gemito- l’ego del mio silenzio. Tutti parlano, ma nessuno dice niente. Tutti si considerano artisti, ma nessuno fa veramente un’opera. Sono tutti faccendieri affaccendati in niente. Tutto è valutato in base ai soldi. Vuoi che mi venda anche io? Grazie no. Questi camminano con i paraocchi, come i ciucci, come pecorelle. Io non posso. Mai più perdita della dignità. Altrimenti che senso avrebbe l’Arte?”.
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