Chi furono i briganti? Un fenomeno criminale o un movimento di liberazione? Quali erano i loro obiettivi? Come si organizzarono nella provincia di Benevento? Chi era il capobrigante Cosimo Giordano? A tutte queste domande cerca di rispondere il libro di Ugo Simeone, “Il Brigantaggio nel Sannio”, presentato presso l’università, a cura dell’Istituto storico del Risorgimento. L’autore mette a confronto fatti e documenti, senza parteggiare tra le diverse visioni, perché dice che ambisce solo alla ricerca della verità.
La complessa vicenda ruota anche intorno ai fatti di Pontelandolfo e Casalduni, che hanno dato vita ad una disputa ancora aperta. Fu vero eccidio? “La leggenda -spiega il saggista Giancristiano Desiderio- nasce all’inizio degli anni 70 col libro di Carlo Alianello, “La conquista del sud”, che contiene tre paginette di Giacinto De Sivo, che parla di un massacro con tanti morti, avvenuto a Pantelandolfo, all’alba del 14 agosto 1861, a causa di un incendio provocato da 500 soldati, che avevano circondato il paese. Ma questa narrazione confligge con testimonianze e documenti, perché morirono solo 13 persone”.
Sulla scia di Alianello, di stampo neoborbonico, si sono incamminati poi Pino Aprile e Gigi Di Fiore. Quell’eccidio è stato addirittura paragonato alle stragi naziste. Le nuove fonti non sono state prese in considerazione, forse per non disturbare la storiografia ufficiale. “Ricordo -continua Desiderio- un paginone del "Corriere della Sera", con un articolo firmato da Stella e Rizzo, intitolato “Nessuno vuole chiedere scusa ai 400 morti di Pontelandolfo”. Questa cifra viene fuori da una pagina del libro “Terroni” di Aprile, che somma tutti i morti del 1861 e del 1862. Si tratta di una clamorosa manipolazione”.
Per rendere onore alle vittime di Pontelandolfo si sono mossi il Quirinale e Giuliano Amato, in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Dal libro di Simeone emerge, invece, che ad essere trucidati dai briganti furono 42 soldati, venuti a contrastare le resistenze neoborboniche. “Questi militari -precisa Desiderio- furono denudati ed uccisi in piazza. Quando arrivano i loro compagni per rispondere all’eccidio, con essi c’è il patriota sannita Giuseppe De Marco di Paupisi. A questi morti, che non erano soltanto piemontesi, dobbiamo l’esistenza della provincia di Benevento. Lo Stato dovrebbe ricordarsi di loro”.
Nella lotta tra il vecchio e il nuovo mondo, la figura del brigante ha assunto spesso le sembianze romantiche di un Robin Hood, del difensore dei poveri contro i ricchi, dei contadini contro i possidenti. Queste furono le carte che giocarono i due capobriganti sanniti più noti, come Cosimo Giordano e Carmine Crocco, ma ben presto si scopri che finirono spesso nelle trame dei borbonici e della chiesa del Cardinale Ruffo, che cercarono di utilizzarli per una sorta di controrivoluzione conservatrice.
“Io credo -ha detto l’avvocato Luigi Diego Perifano- che il brigantaggio non possa essere ridotto solo a fenomeno criminale, perché ha vissuto una prima fase di rivolta sociale molto sentita tra i diseredati, considerate le loro dure condizioni di vita. Ci fu un periodo in cui i briganti ebbero l’appoggio della borghesia agraria, che poi si tirò indietro, come nel romanzo “Il Gattopardo”. Sarebbe interessante indagare quel filo rosso che c’è con i moti anarchici del Matese di 14 anni dopo”.
“La questione ha tante facce ancora esplorare -ha fatto sapere Luigi Razzano dell’Istituto Storico del Risorgimento- chiameremo altri storici a confrontarsi”. “Circolano tante falsità -ha concluso Simeone-scriverò altri due volumi. C’è tanto da approfondire. Ho scoperto, ad esempio, che Cosimo Giordano non uccise a 16 anni Giuseppe Baldini per vendicare il padre e che non fu mai assolto dalla Corte di Terra di Lavoro, che non si è mai pronunciata. Spero che il mio libro spinga ad altre ricerche”.
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