Quel maledetto giorno del rapimento di Aldo Moro, ricostruito attraverso le domande di un fioraio, che non sa spiegarsi perché gli hanno bucato le quattro ruote del furgone, perché gli hanno impedito di essere come ogni mattina al suo posto di lavoro e quindi di essere testimone di quel fatto tragico. Una piccola storia che s’intreccia con quella più grande, che ha inciso sulle sorti dell’Italia, è al centro dello spettacolo “Spiriticchio - I Fiori di Aldo Moro”, andato in scena al Mulino Pacifico per la rassegna della Solot.
Siamo a Roma, in Via Mario Fani, il luogo in cui il 16 marzo 1978 le Brigate Rosse rapirono il presidente della DC, uccidendo la scorta. Ad un angolo di quella strada c’è il chiosco di Antonio Spiriticchio, che vende fiori. Doveva essere lì come ogni mattina, ma la sera prima dell’attentato, i brigatisti gli bucano le ruote. Il fioraio comincia a fantasticare sulle motivazioni, intravede nei nomi il destino di ognuno, disegna i caratteri delle persone dai fiori che acquistano, si mette alla fine nei panni di Aldo Moro.
La scena è scarna ed emblematica, ci sono rose, garofani, anemoni, gigli e crisantemi, le quattro ruote del furgone una sull’altra, il porta bagaglio della Renault del rapimento sospeso in aria, le macchine di cartapesta utilizzate per l’operazione. Gli interrogativi di Spiriticchio, interpretato con piglio e scioltezza da Ettore Nigro, rimbalzano sugli spettatori. Come si concilia quella violenza col mondo dei fiori? La vicenda di Aldo Moro è scandita dai titoli de “La Repubblica”. Il ritmo è ilare e angosciante.
Perché l’hanno ucciso? Che male ha fatto? Il fioraio dialoga con l’ingegnere, l’avvocato, i passanti. Come è stato possibile ideare quell’attentato accanto ai fiori che lanciano forti messaggi d’amore? L’attore interloquisce col pubblico, rivive i tempi in cui i contestatori erano “figli dei fiori”, racconta qualche barzelletta, accompagnato al piano da Mario Autore. Spiriticchio ricorda il padre, risveglia la memoria, perché “i morti sono sempre accanto a noi, solo che noi non li sappiamo ascoltare”.
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